Il patrimonio archeoindustriale va tutelato, ma chi paga ?

In anticipo, rispetto ai tempi prevedibili, esce fuori l’esigenza di un dibattito sulla sorte del patrimonio di archeologia industriale del territorio.
Non è un caso che gli organizzatori, dopo un primo timido approccio per Festiwall, nell’anno precedente, abbiano voluto mettere al centro, questa volta, l’enorme area dismessa degli stabilimenti Ancione, dalla metà del secolo scorso simbolo dell’industria locale legata alle materie del sottosuolo ragusano.
Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, chi scrive non solo è un appassionato di archeologia industriale ma è anche di spirito liberale, per cui ritiene che la proprietà, fatti salvi alcuni immobili importanti della fabbrica, possibilmente con i macchinari, debba essere messa nelle condizioni di riconvertire le aree per usi edilizi, non solo abitativi.
Del resto, è stato così, negli anni passati, forse anche per altre aree della ditta, come per l’area del palazzo Cocim e per quella adiacente alla Chiesa della sacra Famiglia: servirebbe solo stare a attenti a non replicare lo stesso scempio architettonico ed urbanistico realizzato in queste zone, anche per sfruttare le enormi potenzialità della vasta area degli stabilimenti Ancione.
Ma non sono più i tempi di una volta e, quindi, è necessario, occuparsi del migliore utilizzo delle aree che, fra l’altro, a sette anni dalla chiusura sono state dismesse ma non bonificate come sarebbe d’uopo per un’area industriale.

Bene fa Stefania Campo a introdurre l’esigenza di occuparsi della problematica, per questi immobili – sottolinea – “che hanno svolto, nel nostro territorio, un ruolo prestigioso sia nell’ambito della produzione industriale che nella costruzione di quel tessuto sociale-lavorativo fatto di relazioni umane e di rapporti fra classi economiche differenti”.
“Tutti – prosegue la deputata iblea – sappiamo cosa abbia rappresentato la ditta Ancione per la nostra provincia. Straordinario, quindi, il lavoro fatto da Vincenzo Cascone e dal suo staff che ci sta consentendo di riportare alla luce questo patrimonio ragusano, fino a ieri, chiuso, sepolto e dimenticato.”
Anche se, ci deve essere consentito dire, e vorremmo essere smentiti, la ditta, per quanto di munifici imprenditori, dopo decenni di sfruttamento del sottosuolo, oltre al notevole sostegno ai livelli occupazionali, non ha lasciato nulla di duraturo e concreto alla città che li ha ospitati.

Stefania Campo sottolinea anche che i parlamentari del Movimento 5 Stelle all’Ars, abbiamo presentato un disegno di legge specifico dal titolo “Valorizzazione del patrimonio di archeologia industriale presente sul territorio regionale”, al fine di salvaguardare tutti quei beni classificabili come “archeologia industriale” che, altrimenti, col passare del tempo, sarebbero destinati alla demolizione o semplicemente all’autodistruzione per incuria.

Se ci si mette di mezzo, ma forse è inevitabile, la Regione, sarebbe meglio lasciar perdere.
La Campo ricorda dei vincoli posti sulla ex Fornace Penna e sulla ex Distilleria Giuffrida di Pozzallo, come beni architettonici per la loro specificità “ex industriale”, e aggiunge, come siti di rilevante interesse, la vecchia cartiera che si trova nella Valle dell’Ippari tra Comiso e Vittoria, oppure l’antica Filanda Donnafugata di Ragusa Ibla.

E lì si innesca il dibattito destinato a diventare fortemente politico e anche campanilistico, perché, se parliamo degli stabilimenti Ancione, poco ci manca che li possiamo mettere in marcia di nuovo, per la Fornace Penna o per la vecchia Filanda non esiste nulla, se non un guscio vuoto e bucherellato, prossimo al crollo, oppure, come nel caso della vecchia filanda, solo una ciminiera in pietra,
Mettere in sicurezza questi immobili?
Ma chi ci deve pensare ? La Fornace Penna sta per crollare ma è solo sfondo per le passerelle dei politici regionali.
Non vorremmo che andasse a finire come per buona parte del patrimonio dei centri storici che sono stati riqualificati grazie alla Legge su Ibla, abbiamo palazzi vuoti da decenni, parcheggi inservibili, chiese restaurate con fondi pubblici per le quali il Comune deve pagare per la pubblica fruizione, sono stati spesi milioni ei problemi dei centri storici sono sempre sul tappeto.

Bene, comunque, hanno fatto quelli di ‘Bitume’ a mettere sul tavolo la problematica.

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